
La riesumazione delle salme
La mattina del 15 maggio una staffetta, in motocicletta, era partita da Milano con l’ordine da una parte di iniziare i lavori di sterramento delle fosse, dall’altra di provvedere alle necessità logistiche dei parenti delle vittime che stavano per arrivare, nel numero di una cinquantina. Alcuni di essi sarebbero stati accolti nell’Albergo del Turco, in corso Fanti 29; altri nell’Albergo Tre Corone, in piazza Garibaldi 46; altri ancora, “una dozzina”, presso il Seminario Maggiore della cittadina emiliana. Cabassi si era accordato con il Sindaco Bruno Losi e con il vescovo Vigilio Dalla Zuanna anche per stabilire un “protocollo” di accoglienza.
Nel frattempo, la Commissione sanitaria all’uopo predisposta – composta dai dottori Antonio Cazzaniga, Caio Mario Cattabeni, Enea Albeni e Angelo Bianchi Bosisio– era già impegnata nel pietoso lavoro preparatorio. I dottori avevano proceduto a una prima ricognizione sui corpi reputati “identificabili”. Cabassi aveva fatto allestire, per l’occorrenza, apposite barelle e due tavoli contenenti bacili ricolmi d’acqua e di disinfettante. Mimmo Franzinelli, nel suo saggio dedicato alla strage di Fossoli) precisa che i lavori di scavo furono eseguiti dai “contadini della zona offertisi volontariamente” [da Le stragi nascoste. L’armadio della vergogna: impunità e rimozione dei crimini di guerra nazifascisti 1943-2011, Mondadori, Milano 2002, pag.234]
Per quanto riguardava invece l’aspetto relativo al cerimoniale, già dalla sera di mercoledì 16 maggio tre automobili, messe a disposizione dal Comune milanese, avevano stazionato davanti all’Arcivescovado carpigiano. Esse sarebbero servite l’indomani allo spostamento di medici, di tecnici e di fotografi sul luogo dell’eccidio.
Il giovedì 17, alle 9 del mattino, da Piazza della Scala n.3, i parenti dei Martiri si erano da parte loro mossi alla volta di Fossoli a bordo di automezzi messi a disposizione da Fusetti, il proprietario dell’impresa di pompe funebri addetta al trasporto delle salme fuori dal Comune di Milano. I veicoli erano stati rivestiti di insegne e di iscrizioni fatte stampare per l’occasione dal CLN. Era stato previsto che la Commissione addetta alle onoranze funebri avrebbe atteso l’arrivo dei parenti a Carpi nello spazio antistante il Vescovado. Da lì, dopo un breve momento di raccoglimento, il gruppo si sarebbe spostato alla volta di Cibeno. Officianti del rito sarebbero stati, tra gli altri, un ufficiale sanitario, il Pretore di Carpi e mons. Luigi Corbella, in rappresentanza della Curia milanese.
Franco Redaelli, giornalista accorso sul posto per seguire il recupero dei corpi, in un articolo firmato in data 19 maggio 1945 , ci ha lasciato la seguente testimonianza di quegli strazianti momenti: «Qualche parente è lì, nell’angosciosa attesa di riconoscere lo straziato corpo del proprio caro. Ecco un padre e una salma. Non ci sono documenti, ma un lembo di camicia sembra destare nel povero genitore il dubbio che si tratti proprio del figlio. Inoltre c’è la strana coincidenza che egli si chiama Manzi e che gli ultimi cadaveri estratti portavano un cognome cominciante per la lettera M. Probabilmente l’esecuzione è avvenuta dopo un appello a gruppi in ordine alfabetico. Il signor Manzi appare forte, non trema, non piange. Forse spera che non sia Antonio, quello; che Antonio, chissà, sia ancora vivo in qualche parte del mondo. Ma d’un tratto, da una tasca, è tratto un coltello da caccia. ‘È lui! È lui! Il coltello che portava sempre in montagna!’. E a quella vista il padre non regge più. Si allontana singhiozzando, curvo, finito. Gli sono accanto e lo seguo, gli metto il braccio sotto il braccio, gli dico qualche parola di conforto, ma so che è inutile. Egli continua a piangere, mi parla di Lui, mi mostra la sua fotografia: un ragazzone di trent’anni, dai grandi occhi buoni. E là, alle nostre spalle, quello scempio. Il nodo alla gola mi si allenta, piango. Piangiamo insieme. Fra le lacrime il padre mi fa sapere che suo figlio, il martire Antonio Manzi di Milano, era un comandante partigiano della Val Brembana; e quando io dico d’essere giornalista: “Oh, dica che Antonio era buono, era un santo; buona parte dei suoi guadagni era per i poveri, visitava gli ospedali e non ha mai fatto che del bene’. Sì, povero papà. Lo scrivo qui. Scrivo di Antonio Manzi ciò che potrei scrivere di tutti i sessantasette Martiri, di tutte le migliaia di morti, caduti sotto il piombo dei nazifascisti per la causa della giustizia.» [Radaelli F., Fiori sulle bare dei Martiri, «La Libertà», 19 maggio 1945]
Ha raccontato ancora Thelma De Finetti, amica di Anna, compagna di Jerzi Sas Kulczycki: «I cadaveri erano stati tutti riesumati: sessantotto uomini [...]. Erano allineati nella cappella del cimitero; avevo portato con me dei sali forti, che potevano venire utili. È stato tremendo, mogli, madri, figli e figlie, tutti che andavano da una bara scoperta all’altra, il fetore era terribile, erano rimasti sepolti per dieci mesi, eppure erano ancora riconoscibili. Casimiro ha convinto Anna ad aspettare fuori con me; ha iniziato il triste pellegrinaggio, ogni tanto usciva a trovarci; aveva esaminato tutte le bare meno cinque. La speranza continuava a crescere, Anna non resisteva più, lo abbiamo raggiunto, guardavamo quei tragici resti e la sua speranza andava crescendo in quel luogo tremendo…l’ultima bara e lì ha trovato il suo Jerzy con le mani ancora legate come quando le aveva alzate verso di lei nell’ultimo saluto.» [De Finetti T., Anni di guerra, 1940-1945, Hoepli, Milano 2009]
Francesca Baldini